"Colors in Venice” di Gaia Giorgetti
C’è un fil rouge che lega Andrea Benetti a Venezia, la città che ha ospitato nel 2009 la 53° Biennale, nella quale l’artista emiliano ha presentato il suo Manifesto dell’arte Neorupestre, dove traccia le linee di una poetica che si richiama alle prime forme espressive prodotte dall’uomo preistorico, simboli e segni impressi, primo linguaggio artistico umano che Benetti ripropone nelle sue opere affollate di geometrie, forme astratte, motivi zoomorfi e antropomorfi contemporanei che colloquiano con i graffiti e i bassorilievi dei nostri antenati, che ancor prima di inventare la scrittura sentirono il bisogno di comunicare la loro unione armonica con la natura e i suoi misteri, tracciando forme simbolicamente capaci di rappresentare, oltre che il mistero che lega l’uomo al senso profondo della sua stessa esistenza, anche il segno del limite umano, che oggi- ammonisce l’artista- viene calpestato e travalicato in nome di una prepotente, egoistica e consumistica sopraffazione dell’uomo sulla natura.
L’uso dei simboli, il richiamo ai primordi dell’arte trovano compimento nella tecnica originale sperimentata dall’artista, che crea le sue opere a partire da un bassorilievo, realizzato in fondo gesso su tela, colorato con pigmenti naturali diluiti ad acqua e spatolati su tela- come caffè, hennè, cacao, ossidi, zenzero, spezie e terre- per ricreare la pittura rupestre preistorica incisa sulla roccia, sulla quale poi l’artista emiliano stende colori ad olio, ricoperti da un sottile strato di resina. Procedimento utilizzato anche in tutte le opere della mostra Colors in Venice, esposte a Palazzo Zagùri, presso la Fondazione Casanova, al quale Benetti dedica un omaggio, proveniente, come il resto dei dipinti esposti, dalla collezione L’astrattismo delle Origini, dove l’artista indaga ancor più profondamente nelle radici dell’espressività umana, quando le prime forme geometriche e la simbologia degli archetipi fecero la loro apparizione. Figure umane e animali colloquiano con ingranaggi, segni allegorici, citano e reinventano la nuova pittura rupestre della società contemporanea. Laguna di Venezia, Fondali marini, Gondole a Carnevale, Corteggiamento, Percorsi, I Segreti del Mare, sono alcune delle opere di Colors in Venice, un tributo che Benetti ha voluto dedicare alla città lagunare, evocata nelle forme figurative e astratte che animano le tele presenti a Palazzo Zagùri, ponti allegorici sul mare, forme astratte che ricordano tenui mosaici bizantini, cromatismi che echeggiano al ricco repertorio storico e artistico veneziano e concorrono a comporre il caleidoscopico omaggio dell’artista alla città che ha tenuto a battesimo il manifesto della sua poetica. Se i simboli sono linguaggio, l’arte e la letteratura sono nate prima della storia. L’hanno scritta, nella lingua arcaica dei graffiti, i nostri antenati preistorici. È la grande intuizione dell’arte di Benetti che nelle sue tele ci riporta all’inizio, all’alba della nostra esistenza, quando ancora non eravamo neppure Sapiens, eppure uomini già capaci di cogliere il mistero che si svela nei simboli come tramite tra il visibile e l’invisibile, tra la vita e la morte, tra realtà e mito. Nulla è cambiato- ci ammonisce Benetti- da quando abbiamo tracciato, scalfendo e colorando la roccia delle caverne, le prime rappresentazioni delle immagini filtrate dalla nostra coscienza. Meccanismo tipicamente umano, quello dell’alfabeto simbolico che svela già nell’etimologia del termine greco symbolon, tutto il suo potere: riunire due parti del tutto, era un “symbolon” per gli antichi greci un oggetto d’affezione spezzato in due, diviso tra due parenti, amici o amanti perché, nel ricongiungimento, tornasse ad essere uno; a ricordarci, dunque, la natura incompiuta di ogni singolo, che si realizza e si completa solo nella relazione con l’altro. Ed era “Symbolo” per Platone nel Simposio, l’uomo, condannato a cercare l’altra parte di sé, sottratta all’individuo da Zeus come monito alla mortalità e punizione alla sua tracotanza. Le due parti dell’uomo, dall’alba della sua nascita, metà materia e metà immateriale. Simbolo, come spazio dove alberga lo spirito e l’ingegno, l’arte e la letteratura. Benetti indaga questo vincolo archetipico che ci unisce alla natura, al sacro e al mistero, l’invisibile che si manifesta attraverso il segno, tracciato sulla pietra sin dalla preistoria, nel primigenio linguaggio che si diedero gli uomini e che poi comunemente è diventato per tutti il linguaggio dell’arte (e anche quello della psicoanalisi): rappresentare attraverso il segno, la forma e il colore ciò che ci circonda, come immagine conscia e inconscia, realtà e metafora, oggetto o concetto. Furono per primi gli uomini preistorici ad imprimere sulle rocce delle grotte e delle caverne le loro speranze, le loro paure, la loro fede nella natura come madre e come unica garanzia alla loro sopravvivenza. Lo fecero nel primo linguaggio grafico che il mondo calpestato da esseri intelligenti conosca, lasciando tracce di ciò che eravamo, quali fossero i nostri pensieri, come fosse organizzata la nostra vita e la nostra sussistenza, la fede nel soprannaturale, la rappresentazione dei primi utensili, del nostro rapporto con gli animali, i legami con gli altri esseri, con la terra, il cosmo e il divino. E se oggi non imprimiamo più sulla roccia graffiti e ombre di uomini oranti, possenti animali in corsa e crudi rituali di guerra e iniziazione, mai come adesso, nella società della rete, siamo tornati ad esprimerci per simbolismi, ogni emoticon, e soprattutto la “at”, la chiocciolina di internet, è il nuovo “idolo” del presente, la chiave immaginaria che ci apre il mare della navigazione cibernetica, facendoci naufragare in un mondo che ha smarrito i confini e che- a differenza di quello dei nostri avi- rischia di sfuggirci di mano: pieno di segni, ma vuoto di significati.
Gaia Giorgetti |
Giornalista e scrittrice |