"Prehistoric Wave” di Luciana Apicella
“Il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo l’uomo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso”: si tratta di una frase di Italo Calvino, tratta da un’intervista del 1967 alla Gazette de Lausanne. Una riflessione che, se ad una lettura immediata pare stabilire un radicale ordine di importanza – l’impermanenza dell’uomo versus la permanenza del mondo, della realtà, della natura – ad un secondo sguardo rivela invece l’attribuzione all’uomo di un ruolo tutt’altro che secondario. È lo sguardo umano infatti a permettere al mondo di poter “organizzare informazioni su se stesso”, ossia di potersi strutturare, di potersi conoscere. Di potersi vedere. E l’atto creativo in questa sorta di processo di autocoscienza del mondo attraverso l’uomo occupa, naturalmente, un posto di primo piano.
Che altro è l’arte primitiva se non, appunto, la restituzione sotto forma di segni e colori di una serie di informazioni sul mondo? Di un manuale d’uso dello spazio, da quello visibile – le scene di caccia – a quello invisibile – lo spazio del divino, la rappresentazione come atto magico e propiziatorio? Un segno nel quale Andrea Benetti, che da anni tenta di penetrare l’affascinante enigma della pittura dei nostri antenati, individua i prodromi delle espressioni figurative, e comunicative, del contemporaneo, dal simbolismo all’astrattismo fino all’immediatezza dell’emoticon; così come il genio di Werner Herzog, nel magnifico documentario Cave of forgotten dreams, leggeva nelle zampe e nelle corna in successione dei graffiti all’interno delle Grotte di Chauvet l’invenzione dell’immagine in movimento, ossia l’essenza stessa del cinema.
Allora come rendere ancora più saldo il legame con quella Prehistoric Wave cui Benetti ha consacrato la propria ricerca artistica, creando un ponte che annulli la vertigine del tempo che ci separa da quelle primigenie forme d’arte? Entrando in una nuova vertigine, che riporta in vita i medesimi pigmenti utilizzati 40mila anni fa, messi a disposizione dall’Università di Ferrara a seguito di uno straordinario ritrovamento all’interno della grotta di Fumane, vicino a Verona. L’uomo del XXI secolo che recupera, immaginiamo con una buona dose di emozione e senso di responsabilità, la materia del suo “collega” antenato, una materia inesplorata che inevitabilmente cambia il gesto stesso dell’artista. Che si fa a tratti rarefatto e attento nella fedele riproposizione di stilemi preistorici – gli animali, le figure stilizzate, i cacciatori – anche restituendoci, nella delicatezza del tratto, quasi consumato e impercettibile, l’usura del tempo, a tratti osa nella costruzione di immaginari inimmaginabili, se ci è concesso il paradosso, come accade nell’Antico Astronauta, in una imprevedibile connessione tra passato e presente. L’onda preistorica arriva fino ai giorni nostri, connette visioni e vissuti catapultandoli lungo l’arco di millenni, cerca di ritrovare le tracce di un comune sentire, di un’anima primigenia che resiste al salto culturale, estetico, tecnologico, all’eredità della storia. In un presente in cui l’intelligenza artificiale plasmerà una rinnovata immagine del mondo, una nuova “organizzazione di sé” del mondo, non ci è dato ancora sapere con quali risultati, diventa importante più che mai non smarrire le radici, umane e mai troppo umane, della nostra essenza.
Luciana Apicella |
Giornalista e critica d’arte |