"Un ecologico riduzionismo espressivo" di Silvia Grandi
La tecnica assunta non è mai neutra e indifferente, al contrario essa impone un peso decisivo, condiziona il contenuto, il “che cosa” si vuole esprimere. Il detto fatidico di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio” trova una prova eloquente nelle pitture di Andrea Benetti. Come negli antichi mosaici bizantini o nelle pitture medioevali, le figure di Benetti risultano radicalmente schiacciate sulla superficie; la terza dimensione, ovvero la resa illusionistica della profondità spaziale, è stata completamente eliminata, e con essa sono spariti tutti i dettagli personalizzanti e descrittivi; le figure si avvicinano a degli stampi conformi che le obbligano a posizioni iterate e ripetitive, secondo una disposizione paratattica e frontale, che ci porta a definire la sua arte astratta e sintetica. Un tratto comune, questo, anche alle prime Avanguardie tra fine Ottocento e primi Novecento, Simbolismo in primis, anticlassiche, antinaturalistiche, antimoderne: si pensi ad esempio alla soluzione di Gaugin e della Scuola di Pont-Aven, che proponeva l’à plat, la stesura compatta e sintetica dei colori delimitati da sagome stilizzate, ovvero astratte, secondo il significato etimologico del termine (abtraho = tirar fuori, selezionare), che tendono a darci una raffigurazione del mondo generalizzata, ridotta ai valori di superficie. Ma ritorniamo ancora indietro nel tempo: se all’epoca della koiné bizantina spesso la collocazione spaziale dei corpi era irrilevante, anche nella pittura medioevale troviamo una decorazione “bassa”, scene iconograficamente scoordinate, immagini/simboli posti a random, spesso affastellate mediante un processo di accumulazione in fondi “senza sfondo”, piatti e senza alcun riferimento spaziale di profondità, con modalità espressive che immediatamente si collegano alle soluzioni assunte cinque secoli più tardi – nel secondo Ottocento – ed evidenti nelle tendenze artistiche che abbandonano la copia dal vero, il riporto fenomenico e realista ricco di dettagli icastici, in favore di una simbologia iconica semplificata e ridotta. Proprio passando per i quadri simbolisti e in seguito con le necessità economizzanti delle seconde Avanguardie (Pop Art) ecco che si rintraccia un filo diretto con la contemporaneità, e nella fattispecie con i lavori in questione di Benetti. L’artista ha ben compreso che viviamo in un’epoca in cui ormai il centro è ovunque e non serve sistemare all’interno di rigide griglie rappresentative le varie forme del reale: il computer e le recenti applicazioni tecnologiche ci hanno ormai abituati ai salti temporali e spaziali, in cui viaggiamo saltando da un luogo all’altro, da un periodo storico all’altro senza problemi, annullando qualsiasi distanza, anche culturale. Siamo ormai avvezzi a sondare lo spazio per intercettare forme e simboli vaganti in una dimensione priva di coordinate, per classificarli e ordinarli in una sorta di nuova cartografia del mondo, e Benetti ha introiettato bene questa modalità dell’oggi. Nei suoi quadri troviamo figure ambigue, che richiamano alla mente forme di oggetti e di utensili in bilico tra un passato arcaico, che implode fino alle origini dell’espressività dell’uomo, e un futuro ipertecnologico: i molteplici pattern dai colori forti e squillanti – automobili, aeroplani, uomini, animali, oggetti d’uso comune, eccetera – diventano “forme intenzionali”, ovvero schemi, modelli di un mondo visto attraverso una lente sintetizzante, in cui le cose e le persone si trasfigurano in elementi simbolici, quasi araldici e, in quanto tali, si dispongono di volta in volta in ritmi compositivi sempre diversi. In ogni figura emerge l’outlined, quella linea di contorno netta che oggi è tornata tanto in uso anche tra i wallpainter e gli street artist, ma che possiamo tranquillamente mettere in relazione con l’analoga pratica della cloisonne cara ai Simbolisti: l’effetto che si ottiene è del resto analogo, cioè quella di dare forma ad un’idea, ad un’intenzione non naturalistica, ma decodificabile secondo principi e abitudini visive ormai entrate di fatto nella nostra capacità di interpretare l’attuale repertorio del visibile, fatto di icone, di simboli, di immagini sintetiche che con pochi tratti ci dicono tanto, in perfetta sintonia con la cartellonistica, la pubblicità, la comunicazione mediale e soprattutto il linguaggio dei computer. Chi non è, infatti, oggi in grado di decodificare i tanti e molteplici significati che racchiude un’icona su un desktop o all’interno di un comune software? La velocità dell’epoca attuale ci ha ri-abituato – come nelle epoche antiche e pre-moderne – a surrogare con la nostra mente ciò che è carente a livello descrittivo; la comunicazione va veloce, ci butta addosso a ritmi sempre più frenetici quantità di dati inimmaginabili solo qualche decennio fa, allenando di conseguenza anche le nostre capacità noetiche nel rintracciare i significati più o meno espliciti nella sinteticità delle immagini che ci circondano. Ecco allora che il contorno netto e deciso e la stesura cromatica piatta delle pitture di Benetti, al posto dello sfumato e degli effetti illusori di profondità della pittura realistica, determinano la spazialità, come al tempo stesso l’emergenza rispetto allo sfondo o l’aspetto stereometrico delle icone, si trasformano in un vero e proprio nuovo codice linguistico, in grado di fornirci una riconoscibilità percettiva precisa. Non è un caso inoltre che Benetti adotti un altro ausilio, lo stencil o la mascherina, estremamente in voga adesso tra i giovani artisti, elemento che ci riporta ad una costante dell’arte medioevale, per definizione antinaturalistica come le più recenti correnti pittoriche: usare un pattern, un modello, significa guardare la realtà per selezionarne l’essenza comunicativa ed espressiva, riproponendola filtrata e alleggerita dai suoi gravami descrittivi. Praticando un sano e, oserei dire, quasi “ecologico” riduzionismo espressivo Andrea Benetti sembra opporsi a quell’invadenza delle immagini che ormai sta raggiungendo livelli parossistici, invitandoci a riflettere non solo sulle sue “ripetizioni differenti” della realtà, ma anche su quei meccanismi di serializzazione che oggi stanno alla base di ogni prodotto, materiale o culturale che sia.
Prof. Silvia Grandi |
Docente e Ricercatrice di Fenomenologia dell’Arte Contemporanea |
Facoltà di Lettere e Filosofia – Dipartimento delle Arti |
Università di Bologna |