"Riguardo Andrea Benetti” di Stefano Riccciardi
Era una tiepida domenica di ottobre quando incontrai la prima volta Andrea Benetti, artista contemporaneo, nel suo atelier in una bella casa del novecento sulla collina dell’Osservanza a Bologna. Alto, massiccio, gentile, si contrapponeva come l’artista vero alla sua sterminata produzione artistica che, invadendone le pareti mi sembrò lo avvolgesse quasi a proteggerlo dalla realtà luminosa al di la delle garbate bifore della sua abitazione. Mi presentò subito Barbara, la sua simpatica compagna che sa molto bene (partecipandone ma non subendola) cosa sia la “vita d’artista” e iniziò subito il racconto della sua personalissima struttura creativa offrendomi un calice di vino nero del Piemonte. Essendo inguaribilmente astemio non bevvi il vino ma entrando in quella casa, tappezzata cielo/terra dalle tele del Benetti… (perfettamente incorniciate in un perimetro direi quasi di contenimento ad un’incontenibile fantasia)…non avvertii tanto il pittore o la pittura, in questo caso ampiamente travalicate dall’artista a campo pieno, per una sensazione non del tutto nuova per carità, ma qui ancora più insistente, avvertendo piuttosto l’elegante e aristocratico “distacco per astrazione” dell’artista pur nel figurativismo cosi delicatamente evocato. Senza ricorrere al – Lessico da brochure – inevitabile per quanto insidioso, tanto meno all’immancabile citazione (più di aiuto che di orpello) nella sofisticazione critica dell’altrui opera d’arte, guardando i fiori di Benetti nati dal nulla, per un disassato pensiero pensai semmai… ai fiori del giardino fantastico di Monsieur Hulot di Jacques Tati (forse il più criptico dei registi francesi) ancor prima di abbandonarmi totalmente al percorso immaginario di Andrea a ritroso nel tempo in quella casa del novecento dove il tempo mi sembrò avesse avuto una pausa, una sosta come l’ottimo vino fermo nel suo calice di vetro trasparente. Credo sinceramente che oggi non si possa dire più “nulla” che non sia già stato detto (questa è la dura, ineluttabile condanna della contemporaneità) ma cercando di ampliare un discorso, penso che l’arte contemporanea/astratta nel suo titanico tentativo di annullare ogni regola per affermarne una soltanto (la propria) oltre che visiva ad ampio spettro sia, per sua natura claustrofobica quanto più è spietata e sincera, sfuggente e abilissima nel “non” farsi riconoscere, proprio mentre si conquista quello spazio che può essere commentato, discusso, ragionato, esaltato o avvilito ma che resta lì inaccessibile, inarrivabile, inamovibile come un gigantesco monolito sia pure con un’anima impercettibile che sorride delle più compiaciute divagazioni sul tema. E allora, come ti poni di fronte all’opera d’arte contemporanea e in questo caso specifico al lavoro di Andrea Benetti?…Cosa puoi chiederle, chiusa nel suo stretto rapporto soltanto col demiurgo che le ha dato vita? …Ecco perché, sia pure affascinato dall’arte a-pittorica e iper-visiva di Benetti, anch’egli chiuso nel suo atelier luminoso e sigillato dalle sue opere che ne evidenziano e confortano quotidianamente l’impegno, le gioie, i dolori, le ansie della creatività (qui pura più che mai) non fu tanto l’arte sicura e fertile dell’artista (e Benetti lo è) a commuovermi né il suo percorso nel raccontarmelo, compiaciuto e partecipe, ma un non so che di molto personale, un turbamento complicato di silenzio, un senso e un… “quid” oscuro e gradevole a un tempo che mai più riuscirò a dimenticare da quella bellissima domenica di ottobre. D’altronde tutti sappiamo che l’approccio all’arte contemporanea è molto più difficile e insidioso di quello con l’arte antica, che una ti distende e l’altra ti tormenta, che una (si direbbe) la si comprende “facile” e l’altra molto più difficilmente, come tutti dovremmo sapere che ogni artista autentico (e Benetti lo è) per quanto si sforzi di raccontare-raccontandosi non ce la farà mai perché il mondo di ogni artista autentico…(e Benetti lo è) è così perverso e contorto che, anche per una forma d’inconsapevole pudore, non gli permetterà mai del tutto di potersi esprimere come vorrebbe e così anche lui racconta, tergiversa ma in fondo inganna tutti cercando un ri-conoscimento impossibile attraverso una spontaneità paradossale e tormentata che in fondo è solo un depistaggio neppure consapevole, perché ogni artista (e Andrea Benetti lo sa bene) non può dire quella verità che neppure lui conosce fino in fondo. E allora so benissimo, come lo sa anche Benetti, che non riuscirò mai a vedere (o a comprendere) tutto quello che lui vorrebbe che io “vedessi e comprendessi” (io e gli altri) …e se accetta garbatamente l’opinione di tutti o l’esegesi più raffinata di specialisti del campo e del mestiere (inequivocabilmente di grande aiuto per l’artista) credo sia solo per una riconoscenza formale per chi s’interessa ad un lavoro che altrimenti non procederebbe nella cultura e nella memoria futura. La creatività ha un punto di partenza indefinibile che solo l’artista conosce appena nell’attimo fuggente dell’intuizione per caricarsi poi di stratificazioni, simboli, allusioni che lentamente approdano ad una composizione, ad un progetto, ad una storia che sono il bagaglio appresso di “un’espressione di comunicazione” quanto più felice se compresa e captata, disperata se incompresa e reietta mai tranquilla però come ogni proiezione della sensibilità e del mestiere faticoso dell’artista e della sua volontà di esprimerla…In più, nella fatica di rincorrere certi pensieri…L’artista antico aveva un mecenate per dividere in due l’opera … (Non c’è la forza, il carattere di Giulio II della Rovere dietro il Giudizio universale di Michelangelo?) …il moderno/ contemporaneo ha solo sé stesso…è lui il suo mecenate…ma forse questo è un altro discorso. Non sono uno storico o un critico dell’arte e come tanti mi affido solo alle percezioni, all’emozioni sensoriali, tattili, perfino olfattive, comunque legate al pathos, al senso che io amo chiamare ”stimolo di affetto” verso un’opera d’arte soprattutto visiva, ma sono scrittore e come tale vagolo nella interiorità altrui troppo spesso falsificata dalla scorza dell’apparenza, dietro la superficie o la persistente maschera che ognuno di noi si porta appresso. In Andrea Benetti, guardando le sue opere e cercando “l’oltre” nel suo sguardo ossessivo da una preistoria già compromessa e avvilita da un futuro maligno …quello “stimolo di affetto” l’ho avvertito subito eccome, consegnandomi esclusivamente a lui soltanto e alla sua creazione così ambiguamente e solo apparentemente ludica e gioiosa. Forse, non lo nego, più che “il manifesto neo-rupestre” … più degli ominidi paleolitici, dei segni-disegni e della geniale abilità di crearsi un materiale personale a sé stante (virtuoso ed esoterico) su cui tracciare segni archetipici e lontani, di questo artista estremamente raffinato, oltre la burbera semplicità, l’afflato amichevole che seducendo (forse involontariamente?) inganna un po’ tutti, vorrei invece conoscere l’inizio, l’incipit, laggiù lontano nell’infanzia di ognuno, nel suo primo incontro artistico- sentimentale lieve o terribile che decide un destino e che marchia a fuoco il futuro di ogni artista, insomma quell’incidente di percorso che sigla un talento, la predisposizione al sublime e che nel tempo sarebbe diventato il testimone del suo ingegno complesso ma anche il mastodonte della sua attività, la presenza continua, troppe volte ingombrante, seppure gratificante e piacevole del suo modo di vivere e di operare. Tutto ciò lo so, non sarà possibile né a me né ad altri ed …è giusto che sia così… Guai mai volere penetrare l’affanno, il mistero, il tormento, lo sguardo “a rebour” di un vero artista come lo è per inequivocabile vocazione Andrea Benetti!…L’artista può raccontare tanto ma può dire poco della sua opera che lo racconta meglio, che sa molto più di lui, perché anche lui sa poco di sé medesimo e a volte ci pare convinto e quasi realizzato, altre volte insoddisfatto e irrealizzato, perché qualsiasi cammino artistico (e umano) è sempre incompleto e mai del tutto compiuto, se mai dovesse esserlo oltre ogni nostra aspettativa … A questo genere di artisti dotati di una qualità così rara da comprenderne tante altre (come il caso di Andrea Benetti) dopo il piacere di averli conosciuti, dialogato insieme e apprezzato visivamente il loro itinerario, quel tratto affascinante che non dimentichi, quel granitico talento che qui non perdona, noi possiamo solo tendere una mano… sorseggiando l’ottimo vino che generosamente ti offrono sempre.
Prof. Stefano Riccciardi |
Scrittore |